venerdì 30 ottobre 2015

The Walk - Una camminata tra le Torri Gemelle

La traversata di una vita che dura un attimo, appesa ad un filo.
 
 
The Walk è quel film che promette emozioni, adrenalina, ammirazione e follia artistica di un giovane funambolo che si è formato con il fai-da-te e che vuole sfidare sé stesso ed il mondo.
Nella fattispecie parliamo di Philippe Petit, il funambolo che nel 1974 decise di dare finalmente una forma concreta al desiderio di attraversare le Twin Towers, che ormai erano già state per la maggior parte costruite e completate.
E un film del genere, con certi preamboli, non poteva avere regista migliore di Robert Zemeckis.

 
 
 
La bravura di Zemeckis è innegabile quando si tratta di condensare insieme le emozioni adrenaliniche e la suspense, e questo lo ha più volte dimostrato; non che in The Walk ciò non avvenga, anzi.
Nelle due ore di pellicola (con un 3D ottimamente sfruttato), questa fase di attaccamento allo schermo riesce appieno solo negli ultimi trenta minuti, quando New York comincia a diventare lo sfondo dell'impresa che si sta per compiere.

Ma come un cavo che si sfilaccia e che non regge, anche la pellicola di Zemeckis diventa instabile e barcolla, facendo cadere lo spettatore dalla poltrona e Petit dal suo filo con una sceneggiatura satura, eccessivamente costruita.
Per carità, non si può mica parlare di una persona/personaggio come Petit e della sua mirabolante impresa senza affrontare il suo passato e tutte le tappe che lo indussero ad avere un sogno e a realizzarlo concretamente; ciò però non vuol dire riempire lo spettatore di parole, di fatti, avvenimenti, dilatando i dialoghi e la narrazione della storia (che avviene in prima persona, cioè da parte dello stesso Petit) che diventa prolissa e che fa calare la palpebra allo spettatore proprio nel momento in cui sta per arrivare quella famosa mezz'ora intrisa di emozioni.

Ad impersonare il fenomenale funambolo, che passeggiò avanti e indietro per otto volte su quella fune appesa a 400 metri di altezza nella Grande Mela, c'è Joseph Gordon-Levitt che, da sempre interessato al mondo francese, dà prova di un'interessante performance in termini recitativi (il suo inglese francesizzato è davvero esaustivo), ma risultando un po' stucchevole in termini visivi, specialmente quando narra la sua storia, guardando direttamente in camera.

Ma se ne sentiva davvero il bisogno di riproporre la storia, la sfida e la bravura di Petit dopo il preciso ed interessante documentario Man of Wire - Un uomo tra le Torri, del 2008 di James Marsh, vincitore di un Oscar al Miglior Documentario?
Se la motivazione era quella di ripresentare alle nuove generazioni e a chi si è perso il documentario questa fantastica storia, allora non ci sarebbe nulla da dire.
 
Philippe Petit alla conferenza stampa di The Walk, durante la Festa del Cinema di Roma.

Ma sappiate che il filo è sempre nelle mani di Petit (come ha concretamente dimostrato alle 10a edizione della Festa del Cinema di Roma, dove è stata presentata la pellicola), che si allena costantemente tutti i giorni; un filo che lega Petit all'amore della sua vita e alla storia.

 

martedì 27 ottobre 2015

Il resoconto della 10a edizione della Festa di Roma!

Anche la decima edizione della Festa di Roma si è conclusa, ma nulla mancherà nel ricordarlo mano a mano che arriveranno le recensioni dei film visti.

Una festa giunta al termine, dunque, curata dal direttore artistico Antonio Monda che è riuscito a dare il meglio che si poteva offrire a quest'edizione povera di budget (giusto un paio di milioni di euro).
Di fatto, per stare dentro nei costi, Monda ha costruito una Festa dove i soli film fossero i protagonisti e null'altro, e facendo leva sulle sue approfondite amicizie nel campo culturale e cinematografico per avere diversi incontri con diversi artisti.
Di attori e registi se ne sono visti pochi, sia per gli ovvi motivi citati sopra, sia per la loro sfuggevolezza.
Ciò detto, cosa resta di questa Festa (seppur in senso lato?)?

Tra tutto il programma, sia della Festa che della sezione parallela Alice nella Città, la rosa dei film di spicco contiene pochi nomi: Room su tutti, film di Lenny Abrahamson  (Frank) e vincitore del Toronto Film Festival, ha conquistato tutti raccontando con aspetti molto curati, come la vita venga vissuta da una ragazza sequestrata ai tempi dell'adolescenza e dal figlio, avuto dal suo carceriere; esistenze narrate non solo durante il periodo di prigionia, ma anche successivamente, quando i danni psicologici si fanno sempre più permanenti.
 
Tra le altre pellicole presentate (tra cui Freeheld, Truth, The Walk), quelle che la spuntano, oltre a Room, vi sono:

- Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, con Claudio Santamaria e Luca Marinelli (visto recentemente in Non essere cattivo, di Claudio Caligari), film originale che frulla insieme supereroi giapponesi e contemporanei, la malavita e la voglia di fare del bene al prossimo, e tanta ironia;

- Carol, di Todd Haynes, racconta dell'amore vissuto da due donne diverse per carattere, età e condizione sociale, che nonostante le difficoltà di vivere normalmente senza rimorsi e/o rimpianti, cercano di viversi il meglio possibile, affrontando la purezza di pensiero dell'epoca d'oro degli anni '50;

- The end of the Tour, di James Ponsoldt, con Jason Segel e Jesse Eisenberg, racconta lo stile di pensiero e di scrittura di David Foster Wallace, grazie ad un'intervista svolta nel 1996, da parte del giornalista David Lipsky, mentre volgeva al termine il tour promozionale del libro Infinite Jest.

Oltre a ciò hanno di certo spiccato per interesse e coinvolgimento sia la retrospettiva Pixar, presentata per la prima volta in Europa con tutti i film che hanno fatto la storia di questa grande casa di produzione, rigorosamente in lingua originale, che la masterclass con Kensey Mann, lo story supervisor del nuovo film della Pixar, Il mondo di Arlo, che ha raccontato il suo lungo percorso per lavorare alla Pixar e che ha fatto vedere in anteprima mondiale diverse clip del film di animazione sopra citato, che uscirà il 25 novembre.

Di notevole interesse sono stati anche gli incontri che si sono succeduti durante quest'edizione: Joel Coen e Frances McDormand, Jude Law, Paolo Sorrentino, Wes Anderson e Donna Tartt, William Friedkin e Dario Argento.
 


Un'edizione un po' povera per gli aspetti da me prima elencati, che ha puntato un po' sul riciclo (non vi erano anteprime mondiali) e che ha pasticciato parecchio in termini di organizzazione delle proiezioni nelle diverse sale (repliche in sala Sinopoli, la più grande per quest'anno, prime per la stampa ed incontri in Petrassi, quella delle conferenza stampa) finendo a dover sacrificare eventi e tanto tempo per i poveri accreditati (me compresa) alle prese con code infinite.

Qui di seguito potete trovare i miei personali voti ai film (compresi quelli Pixar) da me visti, in attesa delle recensioni!


TRUTH **1/2
ROOM ****
WALL-E **1/2
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT ***
PAN – VIAGGIO ALL’ISOLA CHE NON C’è **
FREEHELD **
TOY STORY 3 ****
THE WALK **
RATATOUILLE ****
HITCHCOCK/TRUFFAUT ***1/2
THE END OF THE TOUR ****
RETURNING HOME **
EVA NO DUERME **1/2
CAROL ***

domenica 25 ottobre 2015

Maureen O'Hara, una rossa protagonista dell'epoca d'oro di Hollywood

La notizia, per chi è stato o è amante del periodo d'oro di Hollywood, quello che va dai primi anni '40 alla fine degli anni '60, è triste, perché ieri ci ha lasciato la rossa di Hollywood: Maureen O'Hara.
Novantacinque anni, chioma rossa, sangue irlandese e tantissimi film di ottima qualità in carriera.
 

Maureen O'Hara nel ruolo di Esmeralda, in Notre Dame (1939).
 
Classe 1920, la O'Hara mise piede sul palcoscenico teatrale dell'Abbey Theatre di Dublino già quattordicenne, scegliendo la via alternativa a quella di cantante lirica, che non andò a buon fine.
Anche la sua carriera artistica sembrava essere in una posizione di stallo, fino a quando l'attore Charles Hougton la notò durante un provino, e decise di motivare l'attrice ad entrare nel mondo del cinema.
Di fatto, il primo film della O'Hara è La Taverna della Giamaica di Alfred Hitchcock (1939).
Nonostante il lavoro con Hitchcock, la pellicola del suo successo fu Notre Dame, nei panni della bella Esmeralda, film di William Dieterle, sempre del 1939, prodotto dalla RKO.
Maureen O'Hara ne Il Cowboy con il velo da Sposa (1961).
 
Da qui in poi la sua fu una carriera in continua ascesa, partecipando a film come Come era verde la mia valle, di John Ford (1941), Simbad il Marinaio, di Richard Wallace (1947), Il Miracolo della 34a strada di George Seaton (1947), Rio Bravo, sempre di John Ford (1950), Il Cowboy con il velo da sposa, di Davis Swift (1961), McLintock!, di Andrew V. McLaglen (1963), per arrivare a Rancho Bravo, sempre di McLaglen (1966).
La sua ultima apparizione lavorativa, risale agli anni 2000, con il telefilm The Last Grace.
Maureen O'Hara ha ricevuto quest'anno l'Oscar alla Carriera insieme all'attore e sceneggiatore Jean-Claude Carriere, all'animatore e regista giapponese  Hayao Miyazaki , mentre Harry Bellafonte ricevette quello Umanitario.
 
Nonostante la sua brillante carriera, la O'Hara non ricevette mai nessuna nomination agli Oscar, ma le venne attribuito quello alla Carriera giusto lo scorso anno.
Un nome e una sagoma che non saranno facilmente dimenticabili nel contesto cinematografico internazionale.

venerdì 16 ottobre 2015

I Take That ritornano a Milano, con un fulcro di emozioni!


Prima o poi ritornano, si dice.
E questo è proprio il caso dei Take That che sono tornati a deliziare il pubblico italiano ancora una volta, dopo quattro anni dal memorabile ed immenso tour di Progress (che aveva riunito tutti i componenti originali, insomma i Take That e Robbie Williams) con un’esibizione fatta tutta di note positive, svoltasi il 13 ottobre al Forum di Assago (MI).
Un trio (dato che Jason Orange ha deciso di staccare per un po’ la spina) che la sa ben lunga su come rendersi piacevole ed incantare il pubblico.
Milano è stata l’ultima tappa di un tour europeo (costituito per lo più da tappe nella loro terra natia, l’Inghilterra), e l’onore è stato di aver dato ancora una volta tanta partecipazione ed ammirazione a questi ragazzi che, a quarant’anni e passa, portano sempre sul palco un intrattenimento a metà tra il Cirque du Soleil e Broadway con scenografie mai fuori contesto e sempre adeguate; sanno ballare, muoversi, sanno proporre al pubblico la loro musica non per forza composte da hit, ma che contiene diverse canzoni di tutti i loro album (anche quelle fatte con Robbie). E, soprattutto, traggono un’energia così potente dalla loro musica, e viceversa, che chi accorre ad ascoltarli, divertirsi, o semplicemente per passare una serata diversa non ci sono solo le fan che hanno cominciato a seguirli quasi 25 anni fa, ma ci sono famiglie, ci sono giovani e ragazzini e questo non può che fare del bene per loro, i loro prodotti e per chi con piacere assiste ad una varietà di volti adrenalinici.
 
  
Ci hanno viziato in passato e continuano a farlo, ritornando quasi ai livelli di Circus.
Due ore di emozioni e gioia pura, tra passato e presente, da Back For Good, Relight my Fire, Could it be Magic e Pray a The Garden e Said it All, da Greatest Day, Patience e Shine, a Hold Up a Light e Up all Night; e poi, ancora, da The Flood, Affirmation per arrivare alle più recenti These Days, Let in the Sun, Flaws, senza dimenticare le canzoni che hanno fatto parte delle colonne sonore di Sturdust, X-Men: L’inizio e Kingsman ovvero, rispettivamente, Rule the World, Love Love e Get Ready for It).
Il tutto chiudendo tour e concerto nel miglior dei modi, con Never Forget.
 
        
In sostanza, è stato tutto un circo di emozioni, fatte di suoni, luci, musiche e colori, in perfetto stile ed eleganza britannica, ed a quarant’anni suonati, Gary Barlow, Mark Owen ed Howard Donald cantano, ballano ed intrattengono come sempre sanno ben fare e, ancora una volta, hanno dimostrato ed insegnato che anche se non ci sono più i capelli lunghi od ossigenati, i muscoli in bella vista e compaiono le prime rughe, lo spirito è sempre quello di quei ragazzini che nel 1990 hanno formato un gruppo, che tra alti e bassi è sempre stato presente, tra innovazioni e diverse collaborazioni (tra cui quella cinematografica che sta diventando sempre più forte), adeguandosi all’oggi ma senza mai perdere le basi della loro musica e delle loro origini.
Never forget where you've come here from.
 


 

mercoledì 7 ottobre 2015

Black Mass - Depp diventa il criminale più spietato di Boston

 
Boston, 1970.
James "Whitey" Bulger (Johnny Depp) è un gagster irlandese che la fa abbastanza da padrone in città ma che vede accrescere il potere criminale quando, l'ex compagno di giochi, John Connolly (Joel Edgerton), ora diventato un'agente dell'FBI, lo incastra in un accordo che si rivelerà, però, vantaggiso per entrambe le parti.
Il nemico comune da debellare è la mafia italiana. Un vantaggio per l'uno, che può concludere la missione segreta e anche per l'altro; eludendo la legge e nel contempo eliminando la concorrenza, Whitey può diventare il gagster più spietato di Boston. Obiettivo che, poi, raggiungerà.
Adattamento cinematografico del libro Black Mass: the True story of an Unholy Alliance between the FBI and the Irish Mob di Dick Lehr e Gerard O'Neill del 2011, Black Mass non fa parte, in toto, del genere del gangster movie. O meglio, il film non si caratterizza per nessun genere preciso; racconta la storia e basta, dà un inizio e una fine alla vicenda avvenuta realmente, dandone le conclusioni. Niente preamboli, né fronzoli. La storia è quella e il regista di Crazy Heart, Scott Cooper, la racconta.
Anche se non inserito in un genere cinematografico ben delineato, lo spettatore, tuttavia, non perde il filo conduttore principale, né si perde in chissà quali sotterfugi e sottotemi; chi fruisce il film sa cosa sta guardando (salvo perdersi quando ad essere raccontata, per un breve momento, è la vita privata di Whitley, con la moglie Lindsey, interpretata da Dakota Johnson, che da un momento all'altro, volutamente o no, scompare del tutto dalla vicenda)
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Whitey è un personaggio che alterna fasi di luce ed ombra, una specie di vampiro-gangster dalla spietatezza cruenta e senza remore verso gli amici, nemici e devoti dipendenti, ma particolarmente legato alla propria famiglia (la madre, il fratello che aspira a diventare senatore del Massachussett, interpretato da Benedict Cumberbatch, ed il figlio di James stesso).
Il trucco gioca il ruolo fondamentale nella pellicola; il volto di Johnny Depp è, sì, ricoperto di cerone pesante, con l'aggiunta di occhi di ghiaccio e una calvizie incipiente, ma ciò non rende inespressiva un'interpretazione comunque potente e di convinzione.
Il legame tra i personaggi principali, John e Whitey, è indissolubile e, prendendo in prestito e modificando una celebre frase di Harry Potter, "Nessuno dei due può vivere, se l'altro NON sopravvive".
Ma se in questa pellicola, presentata in anteprima mondiale alla 72a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e con 63 milioni di dollari di budget, Depp finalmente convince dopo i fiaschi tra cui Lone Ranger, Trascendence e Mortdecai; Joel Edgerton appare, invece, un po' ingessato nel suo completo informale da bravo agente, mentre Cumberbacth e Dakota Johnson rimangono pressoché insipidi, presentati nel film come fossero li per caso e senza impegno.
 
 
L'ennesima trasformazione di Depp (questa volta in un film non Burtoniano) resiste e convince.
Piscinin, brut e cativ si dice a Milano (Piccolo, brutto e cattivo).
E, per ora, va bene così.