mercoledì 25 novembre 2015

Arlo e Spot.. Imparerai ad amarli! - Il Viaggio di Arlo

Il rischio che Il Viaggio di Arlo possa essere offuscato da Inside Out, uscito pochi mesi fa e diventato nell’imminente una pietra miliare del mondo Pixar e dell’animazione in genere, ci potrebbe effettivamente essere.
Tuttavia The Good Dinosaur – Il Viaggio di Arlo di Peter Sohn ha i suoi buoni motivi per non passare sottotono, tra pubblico e critica.
 
 
Lo spunto iniziale, da dove parte la storia è: cosa sarebbe successo se il meteorite, invece che estinguere i dinosauri, avesse solo sfiorato il nostro pianeta 65 milioni di anni fa?
Ed ecco che nell’immaginario Disney-Pixar i dinosauri si evolvono nel corso dei milioni di anni che li dividono dalla presunta estinzione e diventano contadini e cowboy possessori delle loro mandrie, il tutto svolto nel contesto familiare.
Arlo è un giovane dinosauro, terzo di tre fratelli che vive di paure che non riesce a vincere ma che si mostra determinato su un punto importante: apporre la sua impronta in famiglia.
 
 
A causa di un evento non voluto, Arlo si trova lontano da casa e l’unica via per raggiungerla è seguire il fiume. Il suo compagno di avventure sarà Spot, un cucciolo d’uomo che si trova anche lui solo.
Di fatto Il Viaggio di Arlo è un road movie jurassico che brilla per l’idea di capovolgere i ruoli: sono i dinosauri gli esseri più evoluti e Arlo è uno di quelli, mentre gli umani sono dei fedeli compagni.
E se Arlo è impaurito, un po’ gracile (con le ginocchia sempre arrossate) e timoroso dell’avventura che dovrà compiere, Spot è l’opposto: è totalmente fedele al suo amico già dall’inizio proprio come i nostri amici a quattro zampe, è coraggioso ed intraprendente e sempre ringhioso verso i pericoli.
Arlo e Spot si completano, ma hanno anche diverse cose in comune: un passato difficile con la perdita di un familiare, il riconoscimento dell’uno verso l’altro, ma soprattutto il percorso di crescita verso l’età matura, con tutte le difficoltà del caso (tra emozioni, paure e il rapportarsi con specie diverse e, quindi, con sconosciuti).
La Pixar ha sempre costruito i suoi film sul filo conduttore dell’avventura come formazione e, quindi, su temi comuni per tutti i suoi film, come l’abbandono, il timore dell’ignoto, il viaggio, l’amicizia tra i diversi e gli insegnamenti della vita: temi che non possono non rievocare film di animazione quali Alla Ricerca di Nemo, Toy Story, Cars, Ratatouille, Wall-e, Up, Ribelle – The Brave e molti altri (in sostanza tutti).
Ed è questa la genialità e la bravura della Pixar: proporre sempre i soliti temi, ponendoli sotto differenti prospettive e con molteplici possibilità che si possono riscontrare nei film sopra citati; il bello della crescita interiore che non si avrebbe senza qualche stimolo, il bello del diverso, il bello della scoperta dei valori quali l’amore e l’amicizia che vanno via via approfondendosi lungo il viaggio di avventura del corpo e soprattutto dell’io interiore.
 
 
Il viaggio di Arlo e del suo fedele amico Spot (un rapporto dinosauro-umano differente da tutti gli altri film al riguardo, ad esempio Jurassic Park, World, ecc..) accomuna elementi Disney e Pixar che forse in questo film si amalgamano meglio che negli altri: ritorna il racconto favolistico e classico della Disney degli anni ’90, dei tempi de ll Re Leone in sostanza (che trova diverse rievocazioni per alcune vicissitudini e personaggi) che si unisce alla spettacolarità ed eccellenza della grafica Pixar, che mai come in questo film sfodera le sue tecniche migliori, ponendo fantastiche panoramiche del Nord America (l’ambientazione della vicenda) che danno un’immediata sensazione di realtà (che fa un baffo alla grafica che ci aveva già colpito con Ribelle - The Brave) che potrebbe mandare in confusione anche Madre Natura, senza dimenticare la bravura Pixeriana sul concetto della comunicazione non verbale.
 
 
Il Viaggio di Arlo (che al cinema viene preceduto dal tenero corto hinduista Sanjay's Super Team di Sanjay Patel) è certamente meno concettualizzato di Inside Out, la storia è molto meno complessa: tuttavia, è bene non improntare questo ultimo viaggio di formazione solo per il target dei bambini, perché tutto sommato neanche agli adulti farebbe male riflettere sul proprio percorso di vita e sarebbe necessario porsi la seguente domanda: se i dinosauri non si fossero realmente estinti, potrebbe davvero nascere un rapporto di amicizia e fedeltà tra questi ultimi (e di fedeltà verso il diverso)e l’essere umano di oggi?

giovedì 5 novembre 2015

Da Sean Connery a Daniel Craig, ovvero, sei interpretazioni per una spia!

Today is the day!
 
Oggi esce, nei nostri cinema, l’attesissimo ventiquattresimo capitolo della saga di 007, sempre per la regia di Sam Mendes e con Daniel Craig nel ruolo di Bond.
Ora che Bond ritorna più in forma che mai, è giusto fare un bel ripasso sulla saga, su come è nata e su chi ha interpretato (e in quali film) l’agente segreto più famoso del mondo.

In principio Bond nacque da un racconto del britannico Ian Fleming (si dice, per la figura di 007, si ispirò a figura, classe e portamento di Cary Grant), nel 1952, e dopo dieci anni, dai suoi romanzi, si iniziò con l’adattamento cinematografico che sembra non avere fine.
I diritti dei romanzi realizzati (tranne Casino Royale) vennero acquistati nel 1961 da Albert R. Broccoli insieme a Harry Saltzam; una volta fondata la Eon Productions, i due produttori decisero di realizzare, come primo film Agente 007 – Licenza di Uccidere.
 
Per questo film, non ci fu scelta migliore che quella dell’attore scozzese Sean Connery, ricco di fascino, bravura e dal carattere sanguigno, tanto che divenne, con il passare del tempo, il modello 007 da seguire per i futuri film e volti.
I film con Connery furono cinque: Agente 007 – Licenza di Uccidere (1962) e Agente 007 – Dalla Russia con Amore (1963) entrambi di Terrence Young, Agente 007 – Missione Goldfinger (1964) di Guy Hamilton, Agente 007 – Thunderball: Operazione tuono (1965) di Terrence Young e Agente 007 – Si vive solo due volte (1967, di Lewis Gilbert). Quest’ultimo fu l’ultimo film di Connery (anche se ritornò per Agente 007 – Una cascata di Diamanti) e da qui la saga di Bond si allontanò dalle origini dettate dai romanzi.

Il testimone passò a George Lazenby che prestò il suo volto a Bond solo per Agente 007 – Al servizio segreto di sua maestà (1969, di Peter R. Hunt), ma per questioni essenzialmente di critica e, quindi, dell’inevitabile paragone con il suo predecessore, ritenne opportuno disertare (da una parte sfortunato da ritrovarsi un bel fardello sulle spalle e, dall'altra, diciamocelo; la sua interpretazione mancava prettamente di sale).

Con Agente 007 – Una cascata di diamanti e l’ultimo e definitivo film di Connery, dopo la parentesi di Lazenby, ritornò alla regia Guy Hamilton che vi restò fino a L’uomo dalla pistola d’oro (1974).
L’attore scelto per portare avanti la saga fu Roger Moore che vestì i panni di Bond per 7 film: Vivi e lascia morire (1973), L’uomo dalla pistola d’oro (1974), La spia che mi amava (1977), Moonraker – Operazione Spazio (1979, di Lewis Gilbert), Solo per i tuoi occhi (1981, di John Glen, alla regia fino a Vendetta Privata), Octopussy – Operazione piovra (1983) e Bersaglio Mobile (1985). Il Bond di Moore era più lord, aveva humor ed eleganza paragonabile a Cary Grant, a dispetto dei suoi predecessori. Solo un appunto: per chi avesse visto la serie televisiva The Persuaders - Attenti a quei due, dei primi anni '70, il personaggio di Bond viene citato diverse volte, e spesso e volentieri dall'amico e compagno di set, Tony Curtis).

La fine dell’era Moore fu molto sentita tra i fan della saga.
Per vestire i panni di Bond venne scelto Timothy Dalton. L’attore gallese, però, diede il volto all’agente 007 per i film peggiori della saga, soprattutto in relazione ai risultati al botteghino: 007 – Zona Pericolo (1987) e 007 – Vendetta Privata (1989). Nella fattispecie Dalton ridiede a Bond un po' di quel magnetismo che con Moore si era un po' perso.

Dopo alcuni problemi legali con i diritti del franchise e la conseguente dimissione di Dalton, la scelta per il successivo volto da dare a James Bond ricadde su Pierce Brosnan.
Con Brosnan anche Bond cambiò il suo essere cominciando ad apprezzare i vestiti firmati e smettendo di fumare, utilizzando nuove innovazioni tecnologiche fornite dalla sezione Q. Inoltre anche il nemico di Bond venne adeguato agli avvenimenti degli anni ’90 (l’URSS ormai non esisteva più). Con l’era Brosnan, il ruolo di M (direttore dell’MI6) venne per la prima volta affidato ad una donna, la grande Judi Dench (dopo Bernard Lee e Robert Brown) e, parlando sempre di donne, per la prima volta la bond girl fu di colore, grazie ad Halle Berry.

I film con Brosnan sono quattro e rispettivamente: Goldeneye (1995, di Martin Campbell), Il domani non muore mai (1997, di Roger Spottiswoode), Il mondo non basta (1999, di Michael Apted) e La morte può attendere (2002, di Lee Tamahori).

Dagli anni 2000 si ebbe l’idea di far rinascere la figura di Bond, di proporre un reboot e, ciò detto, Brosnan venne ritenuto un po’ in là con gli anni. Per questo venne scelto (tra moltissimi provini, tra cui pare vi siano stati in lizza anche Clive Owen, Gerald Butler e Hugh Jackman) il biondissimo inglese Daniel Craig.
Firmando, nel 2006, un contratto per quattro film, Craig ha vestito i panni di Bond in Casino Royale (2006, di Martin Campbell) realizzato con un accordo, riguardo ai diritti del romanzo, tra la Sony Pictures Entertrainment e EON; a differenza degli altri film qui Bond è anagraficamente più giovane e anche un po’ più glaciale, sia nei lineamenti che come carattere.
Nel 2008 uscì Quantum of Solace, di Marc Foster, che tuttavia, insieme a Casino Royale, non è riuscito a dare la spinta giusta al nuovo Bond.
Ci sono voluti il cinquantesimo anniversario della saga, la collaborazione di Sam Mendes alla regia e Skyfall (2012) per dare brio e sprint al personaggio e alle sue avventure segrete. In questa pellicola, l’agente 007 diventa più terreno e nostalgico del suo passato (mentre il ruolo di M passa da Judi Dench a Ralph Fiennes).
 
Ed eccoci qui con l’attesa uscita di Spectre, dove Bond continua a confrontarsi con il suo passato e dove dovrà combattere un’organizzazione criminale chiamata Spectre (che già compare in Licenza di Uccidere).
In questa pellicola il cast è molto ricco; la regia è sempre di Sam Mendes, Bond è sempre Daniel Craig (per l’ultima volta), la bond girl è Léa Seydoux, la seduttrice è Monica Bellucci ed il cattivo è Christoph Waltz.

E se pare che Mendes possa realizzare una sua trilogia dirigendo anche il 25° film della saga, chi potrà essere il nuovo Bond, dato l’abbandono di Craig?
Ma soprattutto.. ha ancora senso, seppur adeguando il tutto ai tempi moderni, continuare con il franchise, dopo più di 50 anni e 24 film?
Le scommesse sono (di nuovo) riaperte, agitate e non mescolate.