sabato 21 maggio 2016

X-Men: Apocalisse - Un inno ai diversi

Di Matteo Marescalco


Il 2016 è stato, finora, l’anno di due epici scontri: quello tra Batman e Superman, nell’ambito dell’Universo DC, e quello tra Iron Man e Captain America nel Marvel Cinematic Universe.
Persino i supereroi si scontrano tra loro, in preda ad idiosincrasie che ne svelano i tratti più fragili, quelli più umani.
Ma chi sono questi superuomini che, dall’alto dei cieli, proteggono l’umanità? Da dove deriva il loro potere? E, soprattutto, quanto è legittimo?
Che, più o meno, tutti i film con supereroi come protagonisti siano una sorta di inno all’accettazione della diversità è abbastanza palese. Negli ultimi anni, Man of Steel di Zack Snyder ha insistito molto su questo aspetto, ponendo particolare attenzione sulle difficoltà incontrate dal giovane Clark Kent, esortato dalla madre a ricercare quella che sembra somigliare alla solitudine in pubblico stanislavskijana. Bruce Wayne è uno degli uomini più ricchi sul pianeta; tale caratteristica, tuttavia, non lo salva dalla solitudine della sua vita. Anche lui è un freak, un uomo ai margini. Un vero uomo però, a differenza di Clark Kent, Cristo adottato dalla Terra.

Ma gli X-Men chi sono?
Si tratta di supereroi mutanti protagonisti degli omonimi fumetti della Marvel.
Temi centrali della serie cinematografica dedicata a questi mutanti e che risente fortemente delle atmosfere degli anni ’60 e ’70 negli USA, sono l’odio razziale, la paura della diversità e la discriminazione.
In tal senso, nel carnevale di colori e di esplosioni che è quest’ultimo episodio, una scena ha particolarmente colpito chi vi scrive. Mystica, durante le sue ricerche di mutanti da assoldare nel gruppo del Professor X, si imbatte in diverse arene, tra la Polonia e la Germania dell’Est, all’interno delle quali queste creature sono costrette a combattere tra loro, per soddisfare il piacere degli esseri umani che scommettono sulla vittoria di una piuttosto che di un’altra.
La somiglianza ad una sequenza di A.I. Intelligenza Artificiale è notevole. Nel film di Steven Spielberg, i robot (i diversi) sono costretti a combattere tra loro all’interno di una gigantesca arena. Al termine di questi giochi distopici tra gladiatori post-punk, la rottamazione dei robot dà al pubblico urlante grande soddisfazione. E cos’altro era A.I. se non una fiaba sui diversi e sulla nostra difficoltà ad accettarli? Una rivisitazione di Pinocchio in chiave futuristica, in cui il desiderio del robot/pezzo di legno/mutante di diventare umano/normale si scontra con gli insulti da parte degli esseri umani.
Per tali ragioni, è insufficiente etichettare i film sui supereroi come meri giocattoloni da consumare come fossero merce da fast-food. Negli ultimi anni, è impressionante il numero di blockbuster hollywoodiani che si diletta con nozioni basilari di filosofia o che, comunque, porta avanti interessanti riflessioni sull’identità e sulla natura umana, all’interno di un racconto di genere mainstream rivolto, per l’appunto, al grande pubblico.
 
Quest’ultimo episodio della trilogia prequel sugli X-Men, probabilmente, soffre di una certa stanchezza a livello drammaturgico, trasformando una trovata del precedente episodio (Giorni di un futuro passato) in un’altra folgorante sequenza che, tuttavia, alla lunga, rischia di annoiare oltremodo.
Di particolare interesse è la riflessione sull’uso contemporaneo dei media e sulle modalità attraverso cui le tecnologie digitali assorbono quelle analogiche, mutandone l’esoscheletro, pur mantenendone invariata l’ossatura.
In definitiva, questo ultimo film di Bryan Singer non brilla per originalità o inventiva ma sa, senza dubbio, come sfruttare il già visto a proprio vantaggio. Trasformandolo in grande intrattenimento.

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