lunedì 13 novembre 2017

Borg McEnroe - Il tennis oltre il tennis

Wimbledon, 1980.
Ansia, attesa, fibrillazione che non vale solo per il pubblico. Anzi, che vale di più per i giocatori, specie se sono quelli su cui tutti puntano, quelli da cui tutti si aspettano grandi cose.
 
Björn Borg (interpretato da Sverrir Gudnason), nazionalità svedese, capelli biondi come il grano d'agosto, ma freddo, glaciale e potente come un iceberg.
John McEnroe (interpretato da Shia LaBeouf), nazionalità americana, capelli ricci, neri e disordinati come la sua indole vulcanica, atleta dal colpo mancino.
Il film, diretto da Janus Metz Pedersen (già incontrato alla regia del terzo episodio della seconda stagione di True Detective), sviscera il tennis, lo analizza dall'interno per mostrare uno sport che va ben oltre il tennis generalmente concepito. Ma la fatica che ci si mette, come vale poi per tutti gli altri sport, è davvero solo fisica?
 
 
Borg McEnroe risulta un film scisso in due parti intrecciate tra loro.
Dapprima si assiste ad un percorso di formazione, ad un percorso di crescita personale e nei rapporti con il tennis stesso che sfocia nella storica finale di Wimbledon, da intendersi, però, come un punto di partenza per il futuro e non come punto di arrivo.
Successivamente si assiste alla travagliata preparazione e alle varie partite di qualificazione, fino all'ambita finale.

Nella storia del cinema non è mai stata approfondita una tale rivalità sportiva e una tale volontà di dimostrare quanto nello sport sia necessario "il metterci la testa": tra i recenti si potrebbe segnalare solo Rush di Ron Howard.
Il lavoro di Pedersen vuole mettere in campo e dimostrare come due leggende (una leggenda che vive nella leggenda ed una leggenda che invece lo sarà in futuro) non siano altro che uomini, ognuno con le proprie debolezze.
Entrambi gli atleti hanno una cosa in comune: un passato difficile, quello di chi è andato contro tutto e tutti, di chi ha spezzato racchette o legami familiari per raggiungere il proprio obiettivo: diventare un gran giocatore di tennis. Anzi, il migliore del mondo.
Solo che ognuno ha reagito diversamente dal proprio passato e rispetto al proprio presente: Borg, incanalando ciò nella sua racchetta e McEnroe nel dare fuoco alle polveri in momento che si rivelasse proficuo.
 
 
Metz non parteggia per nessuno dei due, forse da più risvolto alla storia di Borg, ma senza mai prendere una posizione, cercando sempre un equilibrio, spesso e volentieri precario, tra questi due personaggi.
Un film nel quale il fattore narrativo viene sovrastato da quello estetico, senza mai scadere nella banalità. Il lavoro di casting è decisamente egregio.
Era impensabile riproporre una finale realistica come fu davvero quella di Wimbledon: il punto a favore del regista danese sta nel fatto di aver voluto presentare una finale che lavorasse sulla psicologia, sull'assetto mediatico, che lavorasse con la cronaca sportiva. Una cronaca talmente verosimile ed appassionante che sarà facile per lo spettatore dimenticare di vedere una partita già vista (per chi c'era) o di cui comunque sa già il risultato. Il contesto diventa frizzante, la partita si fa intensa e si vive quell'ansia e quell'attesa propria di una finale dominata da uno scontro tra titani.
Due rockstar che, a più di trent'anni di distanza rimangono delle leggende per i più vecchi, e lo diventano per i più giovani.

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